Hi.No. Historical Novels "L'ufficiale e la spia" di Robert Harris

7 marzo, 2020

"L'ufficiale e la spia" di Robert Harris

L’infamante accusa di aver passato documenti segreti al nemico. Prove che inchiodano senza ombra di dubbio il colpevole. La sicurezza di uno Stato a rischio. Gli elementi ci sono tutti e sono così gravi da giustificare la punizione esemplare che aspetta questo traditore: la reclusione, in totale isolamento, in una sperduta isola dell’Atlantico, al largo del Brasile. E anche il nome della prigione, di fronte al pericolo scongiurato, pare adatta come esemplare punizione: Isola del Diavolo (riaperta appositamente per quest’unico prigioniero). Peccato che su quell’isola – e per ben cinque anni – vi soggiorni l’uomo sbagliato, un innocente.

Francia, 1894.
Di fronte a una folla enorme l’ufficiale Alfred Dreyfus viene degradato, radiato dall’esercito e condannato al duro esilio. Lui si professa innocente (lo è, di fatto) ma nessuno vuole credergli: le prove che lo inchiodano vengono presentate come incrollabili anche se il processo si tiene a porte chiuse; all’opinione pubblica viene mostrata solo quella che dovrebbe essere inconfutabile, il cosiddetto “bordereau”, ovvero una lettera destinata all’addetto militare tedesco Schwartzkoppen, e scritta, secondo il perito calligrafo monsieur Bertillon, proprio da Dreyfus. 
Ma perché, se quest’uomo è davvero innocente, tutto rema contro di lui? Può un intero esercito sbagliare così clamorosamente le sue valutazioni? Sì, può. E per varie ragioni.
Innanzitutto l’ufficiale in questione è di origini tedesche. In secondo luogo è ebreo. Insomma, ha tutte le caratteristiche, in quel luogo e momento storico, per attirare antipatie e pregiudizi. Non a caso, mezzo secolo dopo, Hanna Arendt, nel suo saggio “Le origini del totalitarismo” (1951), individua proprio nel caso Dreyfus – si tratta di un fatto realmente accaduto – una delle prove più lampanti ed emblematiche del feroce antisemitismo che avvelenava la società europea.
Robert Harris ripercorre in questo romanzo le tappe di questo calvario che è anche il più clamoroso errore giudiziario degli ultimi secoli. Il punto di vista però non è quello del narratore onnisciente e nemmeno del protagonista, bensì quello di uno dei suoi iniziali accusatori, Georges Picquart.
Il colonnello Picquart, promosso presto al grado di maggiore e messo a capo della Sezione Statistica (il dipartimento di spionaggio, per intenderci), non è troppo sorpreso dal tradimento di un ebreo. Certo, non capisce il perché Dreyfus, anche di fronte all’evidenza, si ostini a negare le prove a suo carico, ma invero non se ne rammarica più di tanto.
Durante la sua nuova attività però, Picquart viene in possesso di documenti che, se autentici, scagionerebbero il prigioniero detenuto all’Isola del Diavolo. 
Contrariamente a quelli che inizialmente sono caldi consigli e poi ordini veri e propri, decide di approfondire la questione, forse non tanto o non solo per dimostrare l’innocenza di Dreyfus, quanto per assicurare alla giustizia un traditore ancora in libertà. Picquart è mosso da un fortissimo senso dell’onore e della giustizia, non si limita a eseguire passivamente degli ordini ma li mette in discussione e non perché non sia un buon soldato ma, proprio perché lo è, guarda agli interessi del suo Paese e li pone al di sopra di tutto, anche delle gerarchie militari.
Il castello di menzogne costruito attorno all’affaire si sgretola nell’arco di qualche anno: l’esercito cerca di salvarsi come può, incolpando altri innocenti, fabbricando prove per coprire i propri misfatti, ma alla fine tutto si rivela inutile. La Nazione è spaccata tra dreyfusards – così vengono soprannominati i sostenitori dell’ufficiale ebreo – e antidreyfusards. Ma, come ebbe ad affermare uno dei più famosi tra gli innocentisti, Émile Zola, “la verità è in marcia e niente la può arrestare”.
E così anche lo stesso Picquart, nel nome della verità e dell’interesse nazionale, non abbandona la lotta e viene trascinato nel disonore per poi risorgere, come una sorta di araba fenice, e veder coronata la sua carriera con la nomina a ministro della guerra. Dreyfus, che è il centro di questo romanzo, appare poco. È un personaggio paradossalmente marginale, attorno al quale ruota però tutto. Non è lui in quanto uomo ad essere protagonista ma è ciò che incarna e rappresenta, la prova vivente della debolezza della Francia in quel momento, dell’antisemitismo come preconcetto, indipendentemente dalla realtà dei fatti. 
La voce narrante non è priva di ambiguità. Non cela il suo fastidio nei confronti di quell’ufficiale che, prima dell’affaire, non esitava ad ostentare la propria ricchezza, che spesso si isolava e non voleva (o riusciva) ad integrarsi con i suoi pari grado. Perché la ricchezza fine a se stessa, “senza una funzione visibile – sempre riprendendo la Arendt – nessuno si spiega perché debba essere tollerata”. E anche, infine, quella richiesta così ovvia e banale, a reintegro avvenuto (Dreyfus chiede di ottenere il grado che avrebbe avuto nell’esercito se non fosse stato ingiustamente degradato e imprigionato per cinque anni), ci suona irriverente.
Harris non fa dell’uomo Dreyfus un martire, ne fa un simbolo, al di là della simpatia che può o meno umanamente suscitare, e ci costruisce attorno un romanzo avvincente e dal ritmo incalzante.

CONSIGLIATO SE: 
 • Amate i romanzi basati fedelmente su storie vere
 • Vi piacciono i thriller legali (e psicologici)

SCONSIGLIATO SE:
 • Non siete sensibili alle tematiche politico-sociali
 • Non amate quel periodo storico (fine XIX secolo)